«Non stare rigido sulle gambe…». Era cominciata normalmente (ma con un po’ più di freddo), ieri, la mia ennesima lezione di tennis. Durante gli anni del liceo dopo aver impugnato la racchetta per cinque anni, avevo deciso di smettere: allenamenti anche il sabato, la fidanzata che rompeva, gli amici che si divertivano. Insomma, c’erano tutti gli ingredienti per appendere la racchetta al chiodo. Compreso il fatto che (probabilmente) non sarei mai diventato Alberto Berasategui, quel pallettaro spagnolo che cercavo di imitare nel gioco, inclusa l’impugnatura impossibile del dritto. Così dissi basta, tra l’incredulità del maestro e dei miei genitori e il senso di vuoto che mi colpì i pomeriggi dei primi mesi lontano dai campi rossi. E adesso che faccio?, pensavo. Esco con la ragazza, con gli amici. Niente. Mi avevano ingannato, studiava o uscivano con le loro ragazze. Perciò iniziai di nuovo a giocare, ma questa volta a calcetto, sport che avevo abbandonato alla fine delle medie e che non mi teneva impegnato più di tanto, un paio di ore la settimana più la partita la domenica mattina. Si poteva fare.
Da un paio d’anni, però, mi sono lasciato convincere di nuovo. E ho risfoderato le amate Prince. Con l’amico di una vita, conosciuto tra uno smash e una volée e allenato dai compagni di una volta. Quelli che non hanno mai smesso.
«Non stare rigido sulle gambe…», mi diceva dunque ieri il maestro. Dall’altra parte della rete, Gabriele, un viso nuovo ma conosciuto (era la sua prima lezione), di quelli a cui non hai mai rivolto la parola, ma con cui senti di avere già confidenza. Un calciatore, per esempio. Non mi verrebbe mai in mente di dire «Scusi signor Cassano…», oppure «Mi dica dottor Ibrahimovic…». Gli darei certamente del tu. «Anto' famme passa'...», «Zlatan, sbrigati che vado di corsa...» . Un calciatore? Ma certo!, ecco dove l’avevo visto: sull’album Panini. O forse all’Olimpico. Perché Gabriele aveva una faccia “amica”, uno che anche se per poco è stato dalla tua parte.
Così, mentre raccoglievamo le palle (in tutti i sensi, perché quando finisce il cestino, di riempirlo non ne ho per niente voglia) lo avvicino con la domanda più idiota: «Gabriele, ma tu sei mai stato classificato?». Sapevo bene che non lo era mai stato, è tecnicamente e stilisticamente troppo scarso per aver mai fatto scuola. Si vede che è un autodidatta e che non ha mai preso il tennis sul serio. «No, no, ho fatto altri sport», risponde sorridendo Gabriele. «Tipo?», incalzo io. «Ho giocato a pallone», dice lui. Cinque secondi di pausa. «Tra i professionisti», aggiunge. Bingo, la mia memoria calcistica, che visto il mio rincoglionimento è evidentemente separata dal resto dei ricordi, non mi inganna mai. Aveva giocato nella Roma, nel Napoli e in una serie di squadre (praticamente una all’anno) tra A, B e C1. Insomma non un fenomeno. Che all’età di 32 anni ha deciso di smettere. «Quest’anno non ho trovato una squadra, il ginocchio non mi regge più e mi sono rotto i coglioni». «L’atmosfera tra i professionisti è bella», dice rispondendo alle domande degli altri tennisti part-time: «lo stadio pieno, la gente ti adora, le donne pure. Ma l’ambiente di lavoro è come tutti gli altri. Anzi peggio, di merda».
Ora Gabriele ha quindi deciso di affidare a Orso (il maestro) il proprio inguardabile rovescio. Ma del suo passato non ne vuole parlare. Sembra si vergogni. Forse di non aver trovato una squadra pronta a offrirgli uno stipendio, oppure che l’abbia riconosciuto solo io. Perché se per 90 minuti la settimana sei una delle persone più invidiate del mondo, finita la tua carriera, superata quella sottile linea bianca che separa il campo di gioco dalla vita, rischi di tornare normale. E non sempre l’accetti. Proprio come Gabriele.