8.2.04

San Sebastiano e Peter Pan

Belli i due articoli sportivi apparsi oggi su "Il Manifesto" e segnalatimi da un amico. Uno parla di Cassano, l'altro di Del Piero.

Antonio, luce rossa da ribelle



di Matteo Patrono

Tre anni fa, quando salutò gli amici di Bari Vecchia e partì alla volta di Roma per andare a giocare con Totti e compagni, Antonio Cassano pensò di aver fatto la cosa giusta. Nonostante tutti gli dicessero che sarebbe stato molto meglio accettare le offerte della Juventus («Torino è triste ma là si vincono gli scudetti»), lui che bastian contrario lo era sin da ragazzino quando si divertiva a provocare l'allenatore colpendo volontariamente la traversa anziché far gol perché «così era più difficile», scelse la Roma perché s'era messo in testa di giocare a tutti i costi col capitano giallorosso che campeggiava da anni sul poster di camera sua. Il presidente Sensi lo pagò quasi 60 miliardi di lire e si gridò allo scandalo perché in fondo era solo un dicottenne brufoloso che giocava il pallone da dio ma aveva ancora tutto da dimostrare. Umberto Agnelli, che lo aveva fatto seguire attentamente, liquidò la faccenda come una questione di stile: «E' bravo, è giovane ma parla un po' troppo...». Questo perché tra le mille leggende che già circolavano sul suo conto (1300 palleggi consecutivi, il colpo a coda di rospo, la passione per i film di Alvaro Vitali) c'era pure quella che lo voleva irridere avversari e compagni di squadra con frasi del tipo «Tieni lo stesso vizio di tua madre, sempre con le gambe aperte!». Che Cassano si sia fermato a Roma è stato probabilmente un bene per tutti: ve lo immaginate con la casacca bianconera uno che fa le corna all'arbitro, guida senza patente, si copre di tatuaggi e dice che l'unica vera passione della sua vita, oltre al calcio, sono le belle donne? Impossibile. Non sarebbe durato neanche il tempo di un ritiro estivo e sarebbe finito in qualche club satellite della vecchia signora a intristirsi nell'attesa di un improbabile ritorno alla base. Basta guardare la fine che ha fatto quest'anno il piccolo grande Miccoli, che in fondo aveva solo i capelli rasati e Che Guevara tatuato sul polpaccio: un talento purissimo appassito in panchina. All'Inter, è ovvio, Cassano si sarebbe trovato più che bene: perché la Beneamata era la sua squadra del cuore (e infatti gli segnò in slalom il primo gol in serie A) e perché lì se non son strani, non li vogliono. Al Milan avrebbe fatto più fatica (soprattutto con la «vecchia guardia») ma sarebbe sicuramente stato il cocco del presidente: sai che risate a raccontarsi le barzellette zozze in barese stretto. Ma alla Juve proprio no: perché là gli bruffoni baciati da Eupalla che mandano a quel paese l'allenatore e lasciano il campo per un tacco di troppo, non sono graditi.

Tre anni dopo, Cassano sembra più che mai convinto di aver fatto la cosa giusta. Un po' alla volta si è conquistato il posto da titolare là davanti, accanto al capitano che da mito è diventato amico, poi nemico e poi di nuovo amico: in campo oramai ci sono momenti che giocano solo loro due e gli altri stanno a guardare. Capello con lui ha alternato il bastone e la carota, molto più la carota ultimamente ma «ricordati che non sei mica Maradona». Le «cassanate», che all'inizio creavano mille imbarazzi a Trigoria («Oh, l'anno prossimo vinco il Pallone d'Oro...»), oramai sono di casa e ci ride su pure l'allenatore: in Germania il giornale sportivo Kicker le ha definite Cassaner. Per il genietto che non vuole crescere mai (e infatti i suoi tifosi lo chiamano Peter Pan), è arrivata pure la chiamata del Trap che dopo il gol all'esordio con la Polonia lo vorrebbe portare agli Europei portoghesi per farlo giocare con Totti e Vieri. «Se mette la testa a posto...», è il ritornello più ricorrente. Lui si dice devoto a Padre Pio e a Sant'Antonio (ma non a San Nicola), ha tagliato i ponti con il padre (un ex contrabbandiere di sigarette che faceva la comparsa nei film di Pasolini) e si è fatto adottare dalla famiglia Totti, mamma Fiorella e papà Enzo, subito ribattezzato «lo sceriffo». A Roma lo amano tutti perché ricorda Maradona (ricorda soltanto) e perché nelle partite che contano la sua luce, altre volte opaca, si accende sempre di rosso. Domani gli tocca la Juve. Ti ricordi, Antonio? Ti ricordi?

Alex, faccia glamour del martire



di Alberto Piccinini

«Del Piero ci pone davanti al paradosso del nuovo calcio, con la sua faccia triste e scettica», scrive Jorge Valdano nel suo ultimo libro Il sogno di Futbolandia. Vero. Guardi il sito internet alexdelpiero.com discretamente animato in flash e con graziosa musichetta di sottofondo, trovi il marchio Adidas in bella mostra e scopri la vita di un uomo-sponsor, di un uomo-beneficenza, di un uomo-testimonial (ah, l'indimenticabile scivolata sul Cepu...), che nel tempo libero gioca a golf e se proprio vuole esagerare resta a casa a seguire il football americano e il basket in tv come faceva da ragazzo, sulle private. Che continua ad amare incondizionatamente i dischi degli U2, ma prima degli allenamenti non si fa mancare nel walkman l'ultimo disco di cui ha parlato la radio (Eminem, l'r'n'b americano...). Fidanzato con Sonia, si sposerà sempre l'anno prossimo. E' l'infinito adolescente gentile e silenzioso, ma la sua biografia è senz'altro perfetta. Fin troppo per essere vera.

La faccia triste - e i gol non più festeggiati - sono una logica conseguenza. Ha sofferto (pseudo) dualismi con Baggio e con Totti (in nazionale), le pene dell'inferno nell'infortunio del `99 e un infinito ritorno pieno di stradine che non portavano da nessuna parte - com'è noto l'avvocato, dopo averlo soprannominato Pinturicchio, trovò che assomigliasse molto a Godot... L'ultimo ritorno Alex lo ha consumato sull'incredibile prato innevato dello stadio di Torino qualche domenica fa: tre gol contro il Siena (due su rigore), calciando un palla arancione tra le buche e gli scivoloni dei difensori. Teneramente, il giorno dopo i titoloni dei giornali erano tutti sull'ennesima magia Alex.

Adesso Del Piero sente dalla panchina lo scalpitare di Miccoli e Di Vaio. Che sono tutt'altra cosa da lui: terrigno e funambolo il primo, fantasioso come un biliardino il secondo. Ma è quanto basta per ripetere il cliché e vellicare la fretta del tifoso e del critico, specie ora che il modulo gotico del Real Madrid (4-2-3-1), adottato da Lippi e Trapattoni per non far intristire in panchina le star, ha lasciato spazio almeno nella Juve a un più realista 4-4-2 (e annunciano che domenica anche Capello userà lo stesso modulo, che si legge in trasparenza così: «c'è poco da scherzare»). Da qui lo scetticismo di Del Piero, il suo prima che quello degli altri.

Essenziale e minimalista nel suo calcio così anni `90, quando gioca bene Del Piero gioca benissimo. E' quasi lo stesso da 10 anni (muscoli a parte): corsa, dribbling, assist, tiro e soprattutto il mitico tiro a giro - da pensare che se non fosse stato per lui il calcio alla playstation (di cui Alex è vorace consumatore) non l'avrebbero neppure inventato. Se gioca male, invece, gioca malissimo, a livello di vittima sacrificale (gli si attribuiscono responsabilità d'ogni genere nei fallimenti della nazionale e della Juve). La verità è che se giocasse male soltanto, in campo neppure lo vedresti, abituato com'è a starsene più volentieri sulla fascia sinistra: come si dice in «calcese» Del Piero «può sempre accendere la luce di una partita che va così così», per questo il mister non lo sostituisce.

Macché: se gioca male dicono che a farlo giocare sono stati gli sponsor. A cominciare dall'Adidas per finire con l'uccellino nazionale dell'acqua Uliveto (quello dove lui, adolescente cresciutello, sta a pranzo dalla mamma e beve minerale). E tutto discenderebbe ovviamente dal «contratto a vita» firmato con la Juve fino al 2008. La vera fregatura di Del Piero è quella di essere un uomo-immagine: lo devi vedere per forza, e poi trafiggerlo. E' il San Sebastiano del calcio nuovissimo.

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