La partita era stata fino a quel momento abbastanza noiosa, era una finale del resto, le squadre arroccate sulle loro linee, pensavano più a difendere, che a far pressing; poi il fallo, giusto pochi attimi prima del triplice fischio, quando ormai gli spettatori si pregustavano i supplementari, forse per un attimo di distrazione, un fuorigioco male impostato, sta di fatto che l'arbitro aveva indicato immediatamente il centro dell'area, senza neanche consultare il guardalinee, sicuramente sollevato per questo.
Ora spettava a lui, al numero 7, al suo magico destro. Tra i compagni di squadra c'era chi lo tranquillizzava e chi lo incitava, tutti molto preoccupati, ma più leggeri, soavi, ad una spanna almeno sopra di lui; gli tiravano pacche sulle spalle, gli sussurravano che la vittoria era vicina, ma nessuno che si azzardava a dirgli che in caso di destino avverso non sarebbe stato lui il capro espiatorio, l'incapace che non sapeva neanche tirare un rigore, perché si sa come la pensa la gente, che quando un rigore viene parato, non è merito del portiere, ma colpa di chi l'ha calciato. Ma Duillio non ascoltava, guardava solamente quel pallone così tondo tra le sue mani, e pensava, pensava a De Gregori, al suo Nino, anche lui numero 7, anche lui alle prese con un calcio di rigore, al tiraccio di Baggio e alle lacrime di capitan Baresi in quella tanto sfortunata finale dei mondiali 1994, al sonoro "stunc" della traversa presa da Di Biagio quattro anni dopo; non voleva che finisse così.
Sensazioni, immagini, parole che lasciano il segno nella vita di un giovane, che non ti fanno mai dimenticare, nel bene e nel male, quegli attimi, gli attimi in cui ti tiri su i calzerotti e t'infili la maglia nei pantaloncini, perché è così che ti ha insegnato tuo padre, gli attimi in cui ti guardi intorno e vedi il pubblico, il dodicesimo giocatore, che ti incita, ti sbeffeggia, inneggia al tuo nome, gli attimi in cui poggi il pallone su quel cerchio bianco in mezzo all'area, ad undici metri dalla porta, attimi che ti rimangono segnati sulla pelle, che il tempo non lava, ma incide.
E giunse il suo momento. Duillio spolverò il pallone, in fondo doveva essere un suo alleato, se lo rigirò tra le mani indeciso in quale posizione poggiarlo, poi decise che una valeva l'altra, in fondo non ci aveva mai creduto, e lo posò semplicemente sul dischetto.
Alzò gli occhi e vide il portiere. Cappellino rigirato, braccia allargate, maglietta multicolor, troppo appariscente per i gusti di Duillio, pantaloncini e tuta sporchi di terra, sorriso per l'occasione stampato in faccia; pronto e concentrato già da qualche minuto, preciso sulla linea di porta, forse un po' spostato sulla destra, terribilmente puerile, faceva venire una gran voglia di tirarli una bomba proprio lì, dove il presuntuoso aveva lasciato quello spazio tanto invitante. Ma no, Duillio, aveva già deciso avrebbe tirato come suo solito; un tiro piazzato, preciso, deciso e chiaramente sulla destra.
Si guardò intorno ancora un attimo, poi si rivolse al cielo, scandì a mezza bocca le parole di una preghiera, breve, di qualche secondo, seguita da un rapido segno della croce; che ipocrita pensò tra se e se Duillio, in chiesa ci andava sì e no per Natale, ma questo pensiero fu talmente veloce che la coscienza di Duillio non se ne accorse neppure.
Il silenzio improvvisamente si fece largo sul campo di gioco, basta ripensamenti, ora non ci si poteva più tirare indietro.
Duillio prese qualche metro di distanza dal pallone, il giusto per una buona rincorsa, poi guardò l'allenatore, chissà cosa s'aspettava, forse uno sguardo teso o un gesto d'incoraggiamento, invece il mister lo guardava sorridendo, sereno; un brivido pervase la schiena del ragazzo e finalmente pensò che comunque fosse andata, quel sorriso gli sarebbe rimasto per sempre nel cuore. Il silenzio venne fragorosamente rotto dal fischio dell'arbitro, Duillio partì, senza indugio, guardando fisso il portiere, calciò il pallone come non aveva mai fatto prima, un collo pieno, dritto sotto il sette, il portiere si lanciò ma invano.
La parrocchia esplose in un boato, talmente forte da coprire perfino il triplice fischio dell'arbitro; Duillio corse verso i compagni, felice, entusiasta, mentre il mister, don Giulio, lo guardava da lontano, quel dodicenne dalle gambe tanto secche, per il suo modesto parere di ex giocatore, aveva della stoffa.
Alla consegna delle medaglie e della coppa Duillio non smise mai di sorridere, ma il suo pensiero era già altrove, a casa, con la sua famiglia dove almeno per quella sera non si sarebbe parlato d'altro che di quel fenomenale calcio di rigore.
Racconto preso dal sito http://www.cacillo.it/testi.htm
21.1.04
Il calcio di rigore
Avevano scelto lui, e lui non poteva rifiutare. L'avevano scelto per le sue doti, per il suo carattere, ma soprattutto per quel suo fenomenale piede destro, un laser a detta del mister; Duillio doveva tirare un calcio di rigore e non poteva sbagliare.
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