Il più celebre resta ancor oggi lo spagnolo Zamora, che ha giocato negli anni Venti e nella prima metà dei Trenta. Qualcuno asserisce che avesse doti magiche, diciamo anzi mesmeriche, per rifarci al medico Mesmer, che fu il primo a usare l'ipnosi con fini terapeutici. Zamora affissava gli occhi magnetici negli occhi dell'avversario e ne comandava l'azione, ingiungendogli telepaticamente di tirare in quel preciso momento e in quella particolare direzione: poi toccava a lui di volare, afferrando palla con mani che in realtà erano tenaglie d'acciaio.
Si capisce che può anche esserci del vero, ma che di cose magiche si può sempre dubitare senza offendere la ragione. In realtà Zamora era un portento di tempismo e di bravura. Intuita la direzione del tiro, su quello balzava felinamente, e con tanto anticipo rispetto all'intuizione del pubblico da meravigliarlo come per prodigio. Zamora era tanto bravo ed esperto da riuscire anche a fintare l'avversario, cosi da indurlo a tirare in quel settore della porta dal quale affettava di spostarsi. Questo scherzetto fece a Costantino, che scendeva a testa bassa verso rete. Costantino era ala destra della nostra nazionale: Zamora finse di aspettarsi il passaggio in centro e lo illuse di poter infilare rasente il palo: invece balzo d'improvviso all'indietro e abbrancò palla beffardamente. In centro area aspettavano i compagni e ingiuriarono Costantino che non aveva voluto passare, brocco di uno!
Un romagnolo intelligente, Giorgio Ghezzi, imitò Zamora eguagliandolo… quasi in bravura ma superandolo senz'altro in disinvoltura dialettica: quando lo battevano, la colpa era degli avversari, che avevano sbagliato il tiro: secondo loro, essi avrebbero dovuto battere proprio là dove lui stava piazzato: malauguratamente, colpivano male e mandavano palla dov'era ormai impossibile arrivare senza le ali.
Giorgio Ghezzi indubbiamente esagerava un tantino e qualche volta si rendeva ridicolo con simili argomentazioni senza dubbio speciose: ma proprio questo capita ai pignoli del ragionamento, capaci non solo di spaccare un capello in quattro, bensì anche di discutere seriamente sul sesso dei gol.
Del resto, è vero che sbagliando - relativamente - il tiro si hanno maggiori probabilità di beffare un portiere attento e ben piazzato. Talora la nitidezza di battuta rende prevedibile il tiro e dunque meglio parabile. Disgrazie del genere toccavano a Boniperti quando colpiva a volo. Si sa che quasi sempre un tiro a volo riesce imparabile, perché indovinarne la direzione è pressoché impossibile: ma Boniperti, che era tiratore a volo fra i più tempestivi e precisi che io ricordi, solitamente batteva di pieno collo e spediva palla al centro della porta: qui, generalmente, aspettava il portiere, che dalla palla veniva almeno colpito, se addirittura non azzeccava, d'istinto, la presa. Questo che ho raccontato di Boniperti avvalora in certo modo le tesi dialettiche di Ghezzi, il quale era cosi sottile conversatore da riuscire a far filosofia sul suo mestiere. Ghezzi reagiva alla paura del bel figliolo che era trasformandosi addirittura in kamikaze, come è vero che l'eroe non è sempre quello che fugge nella direzione sbagliata. E' curioso anche il motivo per il quale Ghezzi, ottimo atleta, aveva scelto di essere portiere. Sua madre lo picchiava ogni qual volta si accorgeva che aveva giocato a calcio anziché frequentare le lezioni scolastiche. Così, per non tornare sudato, Ghezzi partecipava alle partite dei compagni rassegnandosi a difendere la porta. Pian piano finì per appassionarsi e diventare un virtuoso: ma avendo subito seguito l'istinto, su ogni palla giungeva in volo: e se non aveva abbastanza spazio per tuffarsi... compiva qualche passo indietro per rendere più logico e insieme più spettacolare il suo tuffo. Quando lo vide Masetti, famoso portiere della Roma, e capo scuola dello stile sobrio, alla inglese, Ghezzi finì di divertirsi. Masetti lo prese cordialmente in giro, ma tentò invano di convincerlo che i voli erano la più evidente denuncia d'un piazzamento imperfetto. Ghezzi volava sempre così volentieri che la gente andava in solluchero: da una squadretta della provincia romagnola passò al Modena e, subito dopo, all'Inter. Qui trovò un altro campione, che aveva volato la sua parte, Olivieri, e andò incontro a sgradevoli fastidi. Olivieri ebbe modo di umiliarlo escludendolo dalla prima squadra: ma proprio questa avversione convinse l'irriducibile Ghezzi che l'allenatore dovesse invidiarlo per le sue qualità. C'era forse del vero: e Ghezzi ebbe modo di dimostrarlo quando Olivieri lascio l'Inter. A pensarci, Ghezzi venne molto favorito dall'evoluzione del modulo tattico: il secondo terzino d'area, detto anche libero, impediva ormai agli avversari di giungere soli davanti alla porta: Ghezzi non ebbe più occasione di snervarsi in uscite da kamikaze: la sua emotività scese a livelli plausibili: ben presto conquisto la nazionale - pur senza onorarla più che tanto - e quando l'Inter lo mise fuori, per motivi più sindacali che tecnici, il Genoa lo ricostruì moralmente a vantaggio del Milan, nel quale ebbe modo di rivincere lo scudetto e, dopo quello, di vincere la Coppa Campioni d'Europa. A, questo punto Ghezzi era ricco, aveva sposato bene e messo su un grande albergo al suo paese: quando giocò la Coppa Intercontinentale si spaventò tanto, al Maracanà, che non parò nemmeno uno dei tiri effettuati dagli avversari nel secondo tempo. La partita fra Milan e Santos era incominciata assai bene per Ghezzi ed i suoi compagni. Poi, il Maracanà divenne una bolgia. In campo evoluivano non meno di duecento persone estranee. Nell'intervallo vennero presi a pugni Maldini e altri del Milan. L'arbitro era sudamericano e il suo prezzo in dollari era stato conosciuto prima dal Santos. La sconfitta risultò iniqua ma diede egualmente luogo alla bella, che il Santos e l'arbitro risolsero con un comodo calcio di rigore. Ghezzi era già in tribuna. Fu la sua ultima apparizione in campo internazionale. Divenne albergatore e allenatore; poi, solo albergatore. Nonché chiamarsi "kamikaze", il night del suo albergo si chiama "Peccato veniale".
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