P.s.: post dedicato all'unico non-tifoso del Livorno, al momento a caccia della maglietta numero 99 di Lucarelli. Mah.
31.5.04
Il cacciucco (e martello) in A
28.5.04
Bravo o vincente?
Già me li immagino i titoli dei giornali di domani: "Capello ha scelto la Juve per tornare a vincere". O viceversa. Beh, effettivamente i numeri sono dalla parte dell'uomo di Pieris: sei scudetti in dieci anni, tre finali di Champions League (una vinta), due finali di Coppa Intercontinentale (nessuna vinta) e una serie di supercoppe. Quello che si dice insomma un allenatore vincente. Ma anche bravo? Sì perché a volte le due cose, vincente e bravo, non vanno a braccetto.
Il grande interrogativo infatti è: un altro allenatore con a disposizione quelle squadre avrebbe vinto tanto? Io una risposta ce l'ho, ma vediamo di analizzare una per una le tre grandi esperienze professionali di Don Fabio, da mister s'intende.
Milan
Quando arrivò, la storia racconta che decise di adottare una difesa a tre con Baresi libero, Tassotti e Costacurta marcatori e Maldini spostato a centrocampo. La squadra gli fece però subito notare che forse non era il caso e tornò sulle sue decisioni. Una fortuna: ripassando al modulo-Sacchi vinse tutto quello che vinse. Mi permetto solo di sottolineare, che in quegli anni, il Milan aveva semplicemente i giocatori più forti (arrivati prima dell'avvento di Capello) e i principali avversari erano l'Inter di Ruben Sosa e Fontolan, il Parma di Melli e Osio o la Juve della seconda era Trapattoni. La sua prima vera campagna acquisti portò Andersson, Bogarde, Ziege, Ba, Reiziger, Kluivert, Smoje, Cardone, Cruz, Maini (fenomeni? non credo) e poi bocciò Davids.
Real Madrid
Capello va ancora fiero di aver allenato un giocatore del calibro di Raul. Ma si ricorda dove lo faceva giocare? Raul era l'esterno sinistro di un centrocampo a quattro: davanti giocavano Suker e Mihajtovic. Nonostante questo vinse il campionato (complimenti) ma era ancora il tempo in cui lo scudetto se lo giocavano solo Real e Barça. Forse la sua esperienza migliore, anche perché il Barcellona aveva ancora gente come Figo e Ronaldo.
Roma
Ha il merito di essere l'allenatore del terzo scudetto (18 anni dopo il secondo). Ma il primo anno, rispetto alla stagione precedente (c'era Zeman), ebbe a disposizione in più Montella (voluto dal boemo), C. Zanetti, Nakata, Assunçao (voluto da lui per sostituire Di Biagio) e Gurenko ("un vero talento", disse) e arrivò quinto anziché quarto come fece Zeman. L'anno dopo, come detto, vinse lo scudetto ma con Batistuta, Emerson e Samuel (accordatosi con la Roma già ai tempi di Zdenek). Seguono tre stagioni in cui rispettivamente perde lo scudetto pareggiando o perdendo con le ultime 4-5 squadre del campionato, arriva ottavo e secondo dietro il Milan dei record.
Conclusioni
Dopo quest'analisi (di parte: se non si è capito, Capello non mi è mai piaciuto più di tanto) penso di poter dire che molti altri allenatori (De Biasi in testa: è quello che tra gli italiani al momento mi intriga maggiormente) avrebbero vinto altrettanto, se non di più, con quei giocatori a disposizione. E poi non mi sembra una carriera così piena di eccellenti scelte tattiche e tecniche. Ecco perchè ritengo che Capello non sia un bravo mister. Vincente sì, ma bravo proprio no.
27.5.04
Dilemmi
25.5.04
Audience league
Il portiere - 5° atto
I grandi portieri italiani furono pochi, e moltissimi i buoni portieri. Negli Anni Venti portò la maglia azzurra il genoano De Prà, che apparteneva alla schiatta degli eroi, e incantò per le sue uscite temerarie. Non era più alto di 1,73 ma aveva braccia lunghe da primate, sicché - piccoletto - riusciva egualmente a sfiorare la traversa in punta di piedi. Uscendo impavido su avversari lanciati al gol, subì un paio di trapanazioni al cranio e molte fratture. Lo ricordiamo ammirati del suo coraggio, non molto della sua tecnica, precipuamente istintiva.
A De Pra successe Combi, che aveva le spalle incacchiate e doveva essere di quei borghesi che i compagni di scuola mettevano in porta per manifesta insufficienza atletica. L'orgoglio fisico fece di lui un campione della regolarità e del metodo. Non era capace di parate miracolose: in compenso, parava tutti i tiri parabili, e questo bastò a dargli quattro scudetti e un campionato del mondo.
Combi esordì in azzurro alle Olimpiadi di Amsterdam e commise due grosse papere nella semifinale contro l'Uruguay, che vinse per 3-2. Tuttavia, non venne giubilato. Davanti a lui giocavano Rosetta e Caligaris, due grossi terzini: raramente accadeva che un avversario potesse tirare a colpo sicuro. Combi fu onestissimo atleta e il C.T. Vittorio Pozzo ricorse a lui, già ritirato dall'attività agonistica, quando Arcari II incrinò un avambraccio a Ceresoli in allenamento per i mondiali 1934.
Ceresoli era un autentico asso, di stile molto più appariscente che non avesse Combi. Arcari II aveva un destro omicida e Ceresoli ne scontò la potenza con il coraggio che lo distingueva. Pozzo aveva messo fuori Combi, Rosetta e Caligaris dopo una clamorosa magra sofferta a Torino con l'Austria di Meisl. Quell'estromissione era giusta ma crudele, e Combi avrebbe potuto volergliene: come era persona seria e leale, accettò di tornare all'agonismo, si preparò con gli altri e difese la porta italiana subendo tre soli gol in tutto il torneo. Conquistato il titolo mondiale, Combi si considerò soddisfatto di sé e della propria carriera, alla quale diede un compostissimo addio.
Nel giudicare Combi, si dice che era di stile sobrio se non addirittura povero. Ma la classe non è solo fatta di stile, e indubbiamente Combi dovette meritarsi la fiducia dei compagni e dei tecnici, se per tanti anni militò nella grande Juventus e nella nazionale campione del mondo. Ebbe innegabilmente fortuna, per esser protetto da difensori di classe molto fina; tuttavia la fortuna, in agonismo assai più che nella vita d'ogni giorno, non usa premiare chi non merita.
A Combi subentrò in nazionale Ceresoli dell'Inter. Ebbe anni splendidi ma si incrinò un avambraccio - come ho detto - nell'imminenza dei mondiali. Tornò in nazionale disputandovi una memorabile partita a Highbury, contro l'Inghilterra. Poi passò al Bologna, che subentrò alla Juventus nel libro d'oro del campionato, e decadde vistosamente. In nazionale entrò allora Olivieri, che vinse i mondiali 1938 e durò fino alla guerra. Olivieri è stato, a mio parere, il più grande portiere italiano. Volava molto, però a ragion veduta, usciva sempre con ammirevole coraggio, e subì a sua volta due trapanazioni del cranio. Evitò sconfitte apparentemente già scontate: fu a suo modo un match-winner, che è fenomeno raro fra i portieri. Il solo che avrebbe potuto superarlo era Moro, veneto come lui. Moro venne al grande calcio quando era tramontato il modulo a W, o metodo che contemplava due terzini d'area. Nel modulo inglese a WM l'area veniva sfoltita di difensori e i compiti del portiere si facevano più ardui. Moro ebbe egualmente modo di compiere miracoli ma le sue prestazioni non potevano sottrarsi al carattere avventuroso del calcio all'inglese. Alternò favolose prodezze a errori così madornali da sembrare voluti. In questo sgradevole sospetto lasciò molti che pure l'ammiravano. Finì malamente, giusta la spensierata leggerezza con cui affrontò e assolse il proprio lavoro di atleta. Prima di Moro pervenne alla nazionale Bacigalupo, studente di Medicina. Giocava nel grande Torino che poi sarebbe perito a Superga. La sua classe era grande ma non ebbe modo di rifulgere come avrebbe potuto dietro a una difesa a W o a catenaccio. L'ultima partita memorabile venne da lui perduta con gli inglesi a Torino nel 1948. Lo sorprese un tiro-cross di Mortensen dalla destra: la palla, colpita di collo esterno, era visibilmente viziata da effetto destrorso: Bacigalupo le oppose il pugno: la palla colpì il dorso della sua mano e schizzò in rete.
A Bacigalupo, nell'immediato dopoguerra, Pozzo aveva preferito Sentimenti IV della Juventus. Lo mise fuori quando si accorse che certi tiri da lontano lo battevano inspiegabilmente. Come denunciarne difetti di vista sarebbe stato crudele nei confronti suoi e della Juventus, seguitò a giocare per anni e si segnalò quale miglior portiere da campionato. Aveva notevole agilità e ottima presa. Nelle uscite soleva zompare a piede teso prima di intervenire con le mani, slittando per inerzia e opponendo il fianco all'avversario dopo averlo così fallosamente minacciato in tackle. Sentimenti giocava bene anche all'ala destra e soleva battere i rigori per la squadra. La cosa era abbastanza curiosa e certo divertiva molto la gente veder partire dalla propria porta l'incaricato a battere il rigore in quella avversaria. Giungeva di corsa alla battuta e quasi sempre segnava: ma poteva anche succedere che non segnasse, e allora erano guai. La sua porta era incustodita: una lunga rimessa consentiva agli avversari di entrarvi con tutto l'agio desiderabile...
Momenti notevoli, nell'evoluzione del calcio italiano, ebbero Casari, Bugatti, Lovati, Negri e Mattrel, ma dopo Ghezzi ebbe supremazia il veneto Buffon, alto di statura e tuttavia brevilineo, cioè corto di gambe rispetto al tronco. Questa caratteristica gli consentiva di sbrigarsela bene anche in alto ma di giungere velocemente a terra nei tuffi laterali e bassi. Buffon era dotato di solida presa ed ebbe ottime annate nel Milan prima di scambiarsi il posto con Ghezzi e passare alI'Inter. Purtroppo non era atleta naturale e le fatiche sofferte in allenamento ne hanno molto abbreviato la carriera.
24.5.04
Numeri Uno
Ieri ho visto al cinema il film del regista brasiliano Walter Salles "I diari della motocicletta", pellicola sul primo viaggio per tutto il Sudamerica del laureando in medicina Ernesto Guevara e del suo amico (ancora vivente) Alberto Granado. Film buono anche se non strepitoso. In una scena si intuisce la passione del "Che" per il calcio e per il suo ruolo preferito, quello di portiere. Visto che tra i pali, al di là delle ultime trovate per vendere qualche maglia in più, si indossa sempre il numero 1, la sua passione, nata prima di diventare un rivoluzionario, era da interpretare come un segno del destino.
21.5.04
Tributo
Guardando ieri la partita tra Francia e Brasile per la festa dei 100 anni della Fifa ho pensato che un giorno, se avrò dei figli, potrò dire loro (un po' alla Blade Runner) di aver visto cose che loro non possono neanche immaginare. Quelle cose sono le giocate di Zidane, senza dubbio (dopo Maradona) il giocatore più forte degli ultimi 30 anni.
Ps-proposta: si potrebbe dare il Pallone d'oro a Zidane tutti gli anni, fin quando non smette di giocare. I vari Ronaldo, Ronaldinho, Kakà, Shevchenko, Totti, Henry e Nedved sono grandi giocatori. Ma certamente di un livello inferiore.
Leoni indomabili
20.5.04
Antipatie internazionali
"Filippo Inzaghi is the most arrogant person I have ever seen and he has no respect for his foreign fans maybe only for the italian fans".
19.5.04
Piccoli Mosca crescono
18.5.04
Il portiere - 4° atto
Il più celebre resta ancor oggi lo spagnolo Zamora, che ha giocato negli anni Venti e nella prima metà dei Trenta. Qualcuno asserisce che avesse doti magiche, diciamo anzi mesmeriche, per rifarci al medico Mesmer, che fu il primo a usare l'ipnosi con fini terapeutici. Zamora affissava gli occhi magnetici negli occhi dell'avversario e ne comandava l'azione, ingiungendogli telepaticamente di tirare in quel preciso momento e in quella particolare direzione: poi toccava a lui di volare, afferrando palla con mani che in realtà erano tenaglie d'acciaio.
Si capisce che può anche esserci del vero, ma che di cose magiche si può sempre dubitare senza offendere la ragione. In realtà Zamora era un portento di tempismo e di bravura. Intuita la direzione del tiro, su quello balzava felinamente, e con tanto anticipo rispetto all'intuizione del pubblico da meravigliarlo come per prodigio. Zamora era tanto bravo ed esperto da riuscire anche a fintare l'avversario, cosi da indurlo a tirare in quel settore della porta dal quale affettava di spostarsi. Questo scherzetto fece a Costantino, che scendeva a testa bassa verso rete. Costantino era ala destra della nostra nazionale: Zamora finse di aspettarsi il passaggio in centro e lo illuse di poter infilare rasente il palo: invece balzo d'improvviso all'indietro e abbrancò palla beffardamente. In centro area aspettavano i compagni e ingiuriarono Costantino che non aveva voluto passare, brocco di uno!
Un romagnolo intelligente, Giorgio Ghezzi, imitò Zamora eguagliandolo… quasi in bravura ma superandolo senz'altro in disinvoltura dialettica: quando lo battevano, la colpa era degli avversari, che avevano sbagliato il tiro: secondo loro, essi avrebbero dovuto battere proprio là dove lui stava piazzato: malauguratamente, colpivano male e mandavano palla dov'era ormai impossibile arrivare senza le ali.
Giorgio Ghezzi indubbiamente esagerava un tantino e qualche volta si rendeva ridicolo con simili argomentazioni senza dubbio speciose: ma proprio questo capita ai pignoli del ragionamento, capaci non solo di spaccare un capello in quattro, bensì anche di discutere seriamente sul sesso dei gol.
Del resto, è vero che sbagliando - relativamente - il tiro si hanno maggiori probabilità di beffare un portiere attento e ben piazzato. Talora la nitidezza di battuta rende prevedibile il tiro e dunque meglio parabile. Disgrazie del genere toccavano a Boniperti quando colpiva a volo. Si sa che quasi sempre un tiro a volo riesce imparabile, perché indovinarne la direzione è pressoché impossibile: ma Boniperti, che era tiratore a volo fra i più tempestivi e precisi che io ricordi, solitamente batteva di pieno collo e spediva palla al centro della porta: qui, generalmente, aspettava il portiere, che dalla palla veniva almeno colpito, se addirittura non azzeccava, d'istinto, la presa. Questo che ho raccontato di Boniperti avvalora in certo modo le tesi dialettiche di Ghezzi, il quale era cosi sottile conversatore da riuscire a far filosofia sul suo mestiere. Ghezzi reagiva alla paura del bel figliolo che era trasformandosi addirittura in kamikaze, come è vero che l'eroe non è sempre quello che fugge nella direzione sbagliata. E' curioso anche il motivo per il quale Ghezzi, ottimo atleta, aveva scelto di essere portiere. Sua madre lo picchiava ogni qual volta si accorgeva che aveva giocato a calcio anziché frequentare le lezioni scolastiche. Così, per non tornare sudato, Ghezzi partecipava alle partite dei compagni rassegnandosi a difendere la porta. Pian piano finì per appassionarsi e diventare un virtuoso: ma avendo subito seguito l'istinto, su ogni palla giungeva in volo: e se non aveva abbastanza spazio per tuffarsi... compiva qualche passo indietro per rendere più logico e insieme più spettacolare il suo tuffo. Quando lo vide Masetti, famoso portiere della Roma, e capo scuola dello stile sobrio, alla inglese, Ghezzi finì di divertirsi. Masetti lo prese cordialmente in giro, ma tentò invano di convincerlo che i voli erano la più evidente denuncia d'un piazzamento imperfetto. Ghezzi volava sempre così volentieri che la gente andava in solluchero: da una squadretta della provincia romagnola passò al Modena e, subito dopo, all'Inter. Qui trovò un altro campione, che aveva volato la sua parte, Olivieri, e andò incontro a sgradevoli fastidi. Olivieri ebbe modo di umiliarlo escludendolo dalla prima squadra: ma proprio questa avversione convinse l'irriducibile Ghezzi che l'allenatore dovesse invidiarlo per le sue qualità. C'era forse del vero: e Ghezzi ebbe modo di dimostrarlo quando Olivieri lascio l'Inter. A pensarci, Ghezzi venne molto favorito dall'evoluzione del modulo tattico: il secondo terzino d'area, detto anche libero, impediva ormai agli avversari di giungere soli davanti alla porta: Ghezzi non ebbe più occasione di snervarsi in uscite da kamikaze: la sua emotività scese a livelli plausibili: ben presto conquisto la nazionale - pur senza onorarla più che tanto - e quando l'Inter lo mise fuori, per motivi più sindacali che tecnici, il Genoa lo ricostruì moralmente a vantaggio del Milan, nel quale ebbe modo di rivincere lo scudetto e, dopo quello, di vincere la Coppa Campioni d'Europa. A, questo punto Ghezzi era ricco, aveva sposato bene e messo su un grande albergo al suo paese: quando giocò la Coppa Intercontinentale si spaventò tanto, al Maracanà, che non parò nemmeno uno dei tiri effettuati dagli avversari nel secondo tempo. La partita fra Milan e Santos era incominciata assai bene per Ghezzi ed i suoi compagni. Poi, il Maracanà divenne una bolgia. In campo evoluivano non meno di duecento persone estranee. Nell'intervallo vennero presi a pugni Maldini e altri del Milan. L'arbitro era sudamericano e il suo prezzo in dollari era stato conosciuto prima dal Santos. La sconfitta risultò iniqua ma diede egualmente luogo alla bella, che il Santos e l'arbitro risolsero con un comodo calcio di rigore. Ghezzi era già in tribuna. Fu la sua ultima apparizione in campo internazionale. Divenne albergatore e allenatore; poi, solo albergatore. Nonché chiamarsi "kamikaze", il night del suo albergo si chiama "Peccato veniale".
17.5.04
Questioni italiche
14.5.04
12.5.04
Povero calcio italiano
"Nel frattempo, resta il penoso spettacolo di una manciata di ragazzoni che avevano già tutto, soldi e veline (o almeno viceveline), auto sportive e fama, ma evidentemente non lo sapevano. Poveri loro e povero un calcio che chiude ormai ogni campionato aprendo le sue sentine".
P.s.: E' giusto che un calciatore possa scommettere su una partita che lo vede in campo?
11.5.04
Il portiere - 3° atto
La vita del portiere è sempre dura, sia nelle piccole sia nelle grandi squadre. Il portiere delle piccole viene sovente esaltato dal continuo lavoro. Ad ogni istante lo chiamano a interventi che ne dissolvono l'emozione (o il trac, che è anche degli attori sul palcoscenico). Entra allora in una sorta di trans agonistica dalla quale viene sublimato agli occhi della folla foss'anche la più ostile. Quando lo battono, non sembra mai colpa sua. L'avversario ha potuto tirare con comodo, perfino mirare e beffarlo. La colpa è dei centrocampisti che non tengono palla, dei difensori che i centrocampisti non sanno proteggere, e ovviamente degli attaccanti che non combinano molto più di nulla. II portierino martire viene applaudito contemporaneamente agli autori dell'azione e del tiro che lo hanno battuto. Se poi è un gigante, mette tenerezza per la sua goffaggine. L'italiano normale è un omarino: poter aver compassione di un fusto è occasione che gli è sempre gradita.
Insisto su queste divagazioni psicologiche perché il mio lettore sappia di quante sfumature si complica il gioco del calcio. Ho detto del portiere di piccole squadre, il più delle volte bombardato e battuto. Dirò ora delle maggiori difficoltà incontrate dal portiere di grandi squadre, più raramente cercato dagli avversari.
Il portiere di grande squadra non nasce quasi mai in casa: viene acquistato presso squadre piccole, nelle quali si è distinto lavorando molto e brillando, esaltato, in ogni incontro. Quando arriva da fuori, si pensa al taumaturgo, al fenomeno: ma solo se è un vero campione riesce a reggere. Un portiere mediocre, nonché salvarsi per la forza dei compagni, viene messo proprio da quella forza in disperata minoranza. Nella sua squadretta era sempre sotto pressione: nella grande squadra trascorre lunghi periodi senza toccare palla se non per insignificanti rimesse. Durante le soste, nonché riposarsi, si snerva, o comunque si raffredda, perde i riflessi: quando l'occasione arriva, bisogna esser pronti come se si fosse sempre stati in giusta carburazione psicofisica.
Ecco perché una grande squadra non può avere che un grande portiere. Se ha la minima pecca, risalta doppiamente, la sfiducia ne mina il morale: ben presto si smonta e la gente arriva a mormorare fintamente stupita, in realtà beffarda, quando non perde presa. In questi casi è inutile lavorare di propaganda: la bocciatura è inevitabile: ogni palla diventa un proiettile subdolo e imprevedibile, sicché i compagni si smontano a loro volta anche quando potrebbero insistere in un recupero, in un tackle rischioso ma utile, badando a non rimediare magre di sorta perché, tanto, l'ultima magra, la più evidente, tocca al portiere.
La sorte del quale, ahimè, appare ben presto segnata: la grande squadra lo ripropone a una minore, quasi fosse costretta a svenderlo: e la carriera del poveraccio riprende nell'amarezza o nella frustrazione. Eppure, giocare cioè vivere est necesse. Tornato fra i poveri, il portiere liquidato può nuovamente assurgere ad eroe. Presto o tardi la giornata viene per cui si rinnova la gloria. Gli astri congiurano o concordano, a seconda del suo destino. Non tutti possono nascere Zamora.
Le squadre italiane sono diecimila: fra titolari e riserve, almeno quindicimila sono anche i portieri. E fra loro c'e sempre lo Zamora in potenza, ma per un verso o per l'altro non riesce ad emergere, i suoi sogni svaniscono con gli anni. Intanto diventa vecchio: e quando appende i guantoni al chiodo può almeno ricordare prodezze che non sono di tutti. Soltanto le papere gravi ricorrono nei suoi incubi. Essendo epico il ruolo di portiere, se ne sogna veramente la notte.
Stormi di centravanti allupati scendono verso la porta intrepidamente difesa: i palloni sono proiettili di katiuscia, che è una sorta di cannone-mitragliatrice: il portiere vola da un palo all'altro, impenna alla traversa, plana o addirittura picchia sull'angolino basso, torna a balzare indomito per schiaffeggiare via la palla dall'incrocio. Se proprio il suo istinto è eroico, non in volo si ricorda sognando, bensì in temeraria uscita sui piedi dell'attaccante lanciato al gol. Lo stadio ammutolisce perché ad ogni tifoso si ingroppisce la gola. II portiere compie rapidi passi a braccia basse e larghe come un lottatore giapponese che si appresti ad abbrancare. Nel silenzio attonito, egli si lancia a ghermire proprio nell'istante in cui l'avversario alterna il piede di spinta: abbandonata per un centesimo di secondo, la palla non è più dell'attaccante: il portiere l'afferra e vi si accartoccia sopra senza pensare al peggio. Lo stadio esplode in un applauso omerico. Sopra il suo capo, il portiere-eroe avverte il passaggio radente dei bulloni avversari. Beffato a quel modo, il centravanti ha dovuto springare per non incespicare in lui e - in seconda istanza - per non sfiorare nemmeno un capello a tanto campione!
Sognando a questo modo, indubbiamente si vive. Perfino i giochi di parole crociate definiscono i sogni "le immagini del dì false e corrotte". Il dottor Sigmund Freud asserisce il contrario e sicuramente ha ragione. M'importava fissare il carattere epico dei portieri, la loro psicologia improntata all'eroismo. Poi, ad alimentare i sogni servono gli esempi famosi. La storia del calcio è piena di portieri così bravi da sfiorare la taumaturgia.
10.5.04
Globetrotters
Chi è ancora dell'idea che quando si hanno tanti (cosiddetti) campioni, come il Real Madrid, bisogna farli giocare insieme?
9.5.04
Risultati scontati
Fenomeno paranormale (o paraculo?)
Nei giorni scorsi l'allenatore della Lazio Roberto Mancini, a proposito del dualismo Vieri - Adriano si è espresso così: "Possono di certo giocare insieme. Adriano può tranquillamente partire dalla fascia. D'altronde se riescono a giocare insieme Corradi e Inzaghi che sono più simili dei due attaccanti dell'Inter...". Ora le ipotesi sono due:
a) Mancini capisce poco di calcio: dire che Adriano può partire dalla fascia è poco meno di una bestemmia e il paragone con Inzaghi e Corradi è senza commento.
b) Sta cercando di fare le scarpe a Zaccheroni. Cosa che, peraltro, gli è già riuscita nella Lazio.
Sogno
In Danimarca, l'arbitro internazionale Fisker ha sospeso più volte la partita fra Esbjerg e Vilbor per cori razzisti nei confronti del camerunense Tchoutang, del Vilborg. Infine l'arbitro si è diretto verso la panchina della squadra di casa e ha annunciato che non avrebbe ripreso il gioco se i cori non fossero cessati. L'altoparlante ha diffuso la sua intenzione e i cori sono cessati.
Gianni Mura, "Sette giorni di cattivi pensieri", La Repubblica di oggi.
7.5.04
5.5.04
Al verde
4.5.04
Il portiere - 2° atto
Gli stessi allenatori tendono a trasformare i propri portieri in cascatori acrobatici. I loro allenamenti sono veri e propri assedi fra il penso e la tortura. I poveracci vengono chiamati a tuffarsi ora a destra ora a sinistra con applicazione che rasenta il sadismo. Né possono ribellarsi a questa legge, che li vuole volanti per elezione. Abbrancata in volo la palla, debbono preoccuparsi poi di cadere senza ammaccarsi troppo. Vi riescono seguendo la norma dei paracadutisti all'atterraggio: il primo contatto è ovviamente dei piedi (o del piede, per i portieri), il secondo è un armonioso assorbimento della botta con polpaccio esterno, ginocchio, coscia, gluteo, anca, gomito e spalla, con lieve anticipo del gomito e dell'avambraccio rispetto a quella delicata articolazione. L'allenamento del portiere è di durezza estrema. Tuttavia, è ben raro che la partita offra situazioni simili a quelle superate in allenamento secondo stile e voglia. L'allenamento è un fatto squisitamente tecnico: si tratta di affinare lo scatto, la sensibilità delle mani, il senso del tempo, l'abilità della caduta. In partita, quasi tutto cambia. Il tiro dell'avversario si può prevedere ma non è mai scontato come quello che effettua l'allenatore, di piede o addirittura di mano. La partita desta emozioni alle quali si può reagire solo d'istinto. E qui appare il coraggio, qui si definisce e qualifica la classe d'un portiere.
Lo stile serve il più delle volte a ingannare i gonzi, numerosissimi in ogni ordine di posti, a incominciare dalla panchina. I compagni non si curano affatto del modo, bensì della efficacia degli interventi. I compagni vogliono essere sicuri: né perdonano al portiere che esiti, mettendo in ancor più grave evidenza la loro colpa. Il discorso è veristico, non cinico. I difensori sono uomini, come tutti: se il portiere se la cava, un loro eventuale errore viene dimenticato fra gli applausi. Quando invece non se la cava, la scena è sovente grottesca, e si ripete eguale in tutti gli stadi del mondo: il portiere rimane in ginocchio e appare annichilito, ma ben presto reagisce a grandi gesti accusando questo o quel compagno che "non si è curato di marcare decentemente l'avversario".
In campo, i litigi sono spesso così acri da rasentare l'isteria. Il calcio è un lavoro in cui l'apparenza conta non meno della sostanza. Urlando improperi, un portiere appena battuto si illude di scaricarsi la coscienza e soprattutto i nervi. Né conviene dargli torto perché le cose possono anche peggiorare. Il portiere è un'anima sempre in pena: un mattocchio estroverso o introverso, a seconda dell'indole: se ha bisogno di sfogarsi lo si lascia dire; se rimugina in se’, può addirittura perdere il lume degli occhi. Sta di fatto che una partita influisce psicofisicamente sul portiere al punto da smagrirlo di due o tre chili, esattamente come succede ai suoi compagni che corrono. Anche stando fermi a soffrire ci si disidrata: e sudare da fermi non è mai bello.
Questo che ho detto riguarda il mestiere e le sue inevitabili crudezze: ma per solito il portiere viene amato dai compagni come nessuno. Quando gli fanno sgarbi, lo picchiano, lo spintonano, i compagni incattiviscono vistosamente: segno che vogliono bene all'ultimo difensore, quello che rischia quasi sempre per l'esito (e dunque per il premio, e in definitiva per la micca di tutti, il sacrosanto pane quotidiano).
Gianni Brera (2-continua, puntata precedente: 27 aprile 2004)
3.5.04
Il rosso e il nero
Fausto Bertinotti, in un'intervista al Corriere della Sera di oggi.
Il mercato dei campioni
Il Milan si è aggiudicato il campionato. Meritatamente. Vinti tutti gli scontri diretti (tranne uno, con la Juve a Milano), pochissimi punti lasciati alle cosiddette piccole, costanza di rendimento (alto) sia tecnico che atletico, un buon allenatore e un pizzico di fortuna tra i fattori che hanno portato alla conquista del 17° titolo per i rossoneri. E ora? A Milanello già si parla di futuro: Stam e un altro "campione" dovrebbero far parte della rosa milanista della prossima stagione.
Ma, visto che se si vuole trovare un difetto al Milan è l'età avanzata del reparto difensivo (fatta eccezione per Nesta), ha senso acquistare un giocatore, sì, di altissimo livello ma comunque di 32 anni? Secondo me, no. Proprio quando si vince e si dispone di un'ottima struttura, è il momento di puntare su giovani in grado di crescere e imparare dai "grandi". Si spende meno e si ha la possibilità di formare calciatori buoni per sei-sette stagioni e non per una o due: il confronto Kakà-Rivaldo in questo senso è emblematico.
E poi continuare a comprare Galacticos, anno dopo anno, non è certo una strategia vincente. Real Madrid docet.