11.5.04

Il portiere - 3° atto

La vita del portiere è sempre dura, sia nelle piccole sia nelle grandi squadre. Il portiere delle piccole viene sovente esaltato dal continuo lavoro. Ad ogni istante lo chiamano a interventi che ne dissolvono l'emozione (o il trac, che è anche degli attori sul palcoscenico). Entra allora in una sorta di trans agonistica dalla quale viene sublimato agli occhi della folla foss'anche la più ostile. Quando lo battono, non sembra mai colpa sua. L'avversario ha potuto tirare con comodo, perfino mirare e beffarlo. La colpa è dei centrocampisti che non tengono palla, dei difensori che i centrocampisti non sanno proteggere, e ovviamente degli attaccanti che non combinano molto più di nulla. II portierino martire viene applaudito contemporaneamente agli autori dell'azione e del tiro che lo hanno battuto. Se poi è un gigante, mette tenerezza per la sua goffaggine. L'italiano normale è un omarino: poter aver compassione di un fusto è occasione che gli è sempre gradita.

Insisto su queste divagazioni psicologiche perché il mio lettore sappia di quante sfumature si complica il gioco del calcio. Ho detto del portiere di piccole squadre, il più delle volte bombardato e battuto. Dirò ora delle maggiori difficoltà incontrate dal portiere di grandi squadre, più raramente cercato dagli avversari.

Il portiere di grande squadra non nasce quasi mai in casa: viene acquistato presso squadre piccole, nelle quali si è distinto lavorando molto e brillando, esaltato, in ogni incontro. Quando arriva da fuori, si pensa al taumaturgo, al fenomeno: ma solo se è un vero campione riesce a reggere. Un portiere mediocre, nonché salvarsi per la forza dei compagni, viene messo proprio da quella forza in disperata minoranza. Nella sua squadretta era sempre sotto pressione: nella grande squadra trascorre lunghi periodi senza toccare palla se non per insignificanti rimesse. Durante le soste, nonché riposarsi, si snerva, o comunque si raffredda, perde i riflessi: quando l'occasione arriva, bisogna esser pronti come se si fosse sempre stati in giusta carburazione psicofisica.

Ecco perché una grande squadra non può avere che un grande portiere. Se ha la minima pecca, risalta doppiamente, la sfiducia ne mina il morale: ben presto si smonta e la gente arriva a mormorare fintamente stupita, in realtà beffarda, quando non perde presa. In questi casi è inutile lavorare di propaganda: la bocciatura è inevitabile: ogni palla diventa un proiettile subdolo e imprevedibile, sicché i compagni si smontano a loro volta anche quando potrebbero insistere in un recupero, in un tackle rischioso ma utile, badando a non rimediare magre di sorta perché, tanto, l'ultima magra, la più evidente, tocca al portiere.

La sorte del quale, ahimè, appare ben presto segnata: la grande squadra lo ripropone a una minore, quasi fosse costretta a svenderlo: e la carriera del poveraccio riprende nell'amarezza o nella frustrazione. Eppure, giocare cioè vivere est necesse. Tornato fra i poveri, il portiere liquidato può nuovamente assurgere ad eroe. Presto o tardi la giornata viene per cui si rinnova la gloria. Gli astri congiurano o concordano, a seconda del suo destino. Non tutti possono nascere Zamora.

Le squadre italiane sono diecimila: fra titolari e riserve, almeno quindicimila sono anche i portieri. E fra loro c'e sempre lo Zamora in potenza, ma per un verso o per l'altro non riesce ad emergere, i suoi sogni svaniscono con gli anni. Intanto diventa vecchio: e quando appende i guantoni al chiodo può almeno ricordare prodezze che non sono di tutti. Soltanto le papere gravi ricorrono nei suoi incubi. Essendo epico il ruolo di portiere, se ne sogna veramente la notte.

Stormi di centravanti allupati scendono verso la porta intrepidamente difesa: i palloni sono proiettili di katiuscia, che è una sorta di cannone-mitragliatrice: il portiere vola da un palo all'altro, impenna alla traversa, plana o addirittura picchia sull'angolino basso, torna a balzare indomito per schiaffeggiare via la palla dall'incrocio. Se proprio il suo istinto è eroico, non in volo si ricorda sognando, bensì in temeraria uscita sui piedi dell'attaccante lanciato al gol. Lo stadio ammutolisce perché ad ogni tifoso si ingroppisce la gola. II portiere compie rapidi passi a braccia basse e larghe come un lottatore giapponese che si appresti ad abbrancare. Nel silenzio attonito, egli si lancia a ghermire proprio nell'istante in cui l'avversario alterna il piede di spinta: abbandonata per un centesimo di secondo, la palla non è più dell'attaccante: il portiere l'afferra e vi si accartoccia sopra senza pensare al peggio. Lo stadio esplode in un applauso omerico. Sopra il suo capo, il portiere-eroe avverte il passaggio radente dei bulloni avversari. Beffato a quel modo, il centravanti ha dovuto springare per non incespicare in lui e - in seconda istanza - per non sfiorare nemmeno un capello a tanto campione!

Sognando a questo modo, indubbiamente si vive. Perfino i giochi di parole crociate definiscono i sogni "le immagini del dì false e corrotte". Il dottor Sigmund Freud asserisce il contrario e sicuramente ha ragione. M'importava fissare il carattere epico dei portieri, la loro psicologia improntata all'eroismo. Poi, ad alimentare i sogni servono gli esempi famosi. La storia del calcio è piena di portieri così bravi da sfiorare la taumaturgia.

Gianni Brera (3-continua). Puntate precedenti: 1 e 2

2 commenti:

Anonimo ha detto...

La ringrazio per intiresnuyu iformatsiyu

Anonimo ha detto...

Si, probabilmente lo e